Domenica VIII di LUCA – 60esimo Anniversario della morte di Mons. Giorgio Calavassy

Benedetto il nostro Dio, compassionevole e ricco di misericordia, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amin.

Carissimi, radunati nel nome del Signore per celebrare la sua gloriosa risurrezione dai morti, abbiamo ascoltato la sua Parola, l’annuncio gioioso, la buona novella della riconciliazione, della compassione, della vita nuova che ci viene da lui. Le due letture che ci sono state proclamate ci mettono di fronte a delle realtà, a degli aspetti centrali nella nostra vita cristiana. Il brano del vangelo, preso dal capitolo 10 di Luca, ci ha predicato il mistero dell’amore compassionevole di Dio. E’ sul brano del vangelo che vorrei soffermarmi un attimo.

Il testo, che abbiamo appena sentito, ha due parti molto chiare: una prima parte in cui troviamo il dialogo tra Gesù e il dottore della legge, con le domande-risposte dell’uno e dell’altro, e poi, inserita tra queste domande-risposte una seconda parte, cioè la narrazione della parabola del buon samaritano. Tutto l’arco della narrazione viene poggiato tra la domanda del dottore della legge a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?” all’inizio del brano, e la risposta di Gesù alla fine: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”, cioè: Non si tratta di sapere chi è il tuo prossimo, ma tu devi essere -devi diventare- prossimo per gli altri. Tra queste due domande, quindi, la narrazione della parabola: l’uomo che viene derubato, picchiato e lasciato mezzo morto; accanto a lui, presso di lui, uno dopo l’altro, tre uomini che passano; tutti e tre lo vedono, uno soltanto si ferma, uno soltanto si china verso di lui; uno soltanto ne ha cura, lo carica, lo porta a luogo sicuro… uno soltanto carica tutto su di se. Costui è un samaritano.

Chi è il samaritano, questo samaritano buono? Siamo ognuno di noi? Forse alcuni tra di noi mossi in alcuni momenti da più o meno filantropia? Sicuramente, in qualche momento della nostra vita, tutti avremo fatto o faremo l’esperien­za di incarnare qualcuno dei personaggi della parabola. A tutti il battesimo cristiano ci ha aperti gli occhi per vedere e, quindi, siamo capaci, come ognuno dei tre passanti della parabola, di vedere gli altri, più o meno malcapitati, accanto al nostro cammino. Tutti abbiamo sicuramente la sufficiente filantropia per fermarci, qualche volta, a curare i feriti, a rivolgere loro almeno una buona parola. Pure tutti, però, siamo o possiamo diventare abbastanza induriti di cuore per vedere sì, ma non per fermarci. Tutti, pure, siamo stati o saremo feriti, derubati, picchiati… in tanti modi e poter ricevere il dono, il grande dono, del vino e l’olio della misericordia di Dio, oppure il rifiuto di essere semplicemente visti da altri ma non avvicinati. Forse qualche volta potremmo essere noi in tanti modi a rubare, picchiare, lasciare mal feriti… Infine, sicuramente in qualche momento giocheremo pure il ruolo, grigio apparentemente, del capo dell’alber­go che curerà del ferito nell’attesa del ritorno del samaritano, per riceverne il resto delle spese.

Chi è il buon samaritano? Per noi è una persona concreta ed unica, ha un nome preciso: Gesù Cristo. Lui ha vissuto per primo e in modo totale questo mistero: cioè vedere, fermarsi acanto, curare le ferite, caricarsi… portare a luogo sicuro. In lui Dio si fa prossimo a noi, diventa veramente il nostro prossimo. Lui solo ci vede, lui solo è preso dalla compassione, lui solo versa sulle nostre ferite l’olio e il vino dello Spirito, lui solo si fa carico di noi, assume la nostra umanità. In Cristo noi, feriti, picchiati, lasciati accanto al cammino… siamo raggiunti dalla compassione divina.

E qui arriviamo proprio al mistero della nostra fede: nell’Incarnazione Cristo diventa  il Buon Samaritano che non soltanto vede e si ferma di fronte alla natura umana, ma anche la assume fino alla croce dove è lui che resta, rimane, spogliato, ferito, picchiato, abbandonato… Mistero di fronte al quale, allora, siamo noi ad assumere il ruolo del buon samaritano, cioè a guardarlo, ad accoglierlo nella sua umiliazione, nelle sue ferite, nella sua croce dove “porta la pace ai lontani e ai vicini, per mezzo di cui riconcilia tutto con Dio”, come legge la lettera agli Efesini. Ed è proprio lì, nella croce, dove si realizzerà il vero diventare prossimo, di Lui che lo diventa per noi e di noi che lo diventiamo per gli altri; quindi di lì, allora, ne sgorga la risurrezione, la sua e un giorno pure la nostra, in cui saremo dimora di Dio per mezzo dello Spirito.

In questa Divina Liturgia che abbiamo voluto celebrare come archieratiki liturgia, ricordiamo i sessanta anni della morte del nostro carissimo esarca Giorgio Calavassy. È un momento importante per ricordare lui e tutto quello che all’inizio del nostro Esarcato e per molti anni lui ha fatto per questa sua e nostra Chiesa, che lui amava, serviva e cercava, con l’aiuto del Signore e con tutte le sue forze, di portare avanti. In modo speciale la sua fondazione di Pammakaristos, l’ospedale, la comunità delle suore, Nea Makri, è stato un suo modo di dire e di mostrare come lui amava la Chiesa e in modo speciale la sua che è anche la nostra Chiesa. Per questo tutti noi, quelli che l’avete conosciuto ed amato e quelli che non l’abbiamo più conosciuto ma che l’amiamo pure per il suo esempio, le sue opere, la sua dedizione generosa e gratuita come pastore di questo nostro Esarcato, ringraziamo il Signore che ci dà questi esempi di pastori, di sacerdoti, di cristiani fedeli a lui, al suo Vangelo, alla sua Chiesa. Che il suo esempio ci aiuti a tutti noi ad essere uomini e donne di speranza, fedeli sempre al Vangelo di Cristo e alla Chiesa.

Che il Signore, compassionevole, ricco di amore fedele e di misericordia, che con la sua croce ha distrutto la morte e al ladrone ha aperto le porte del paradiso, come cantiamo nella liturgia, ci dia di poter vedere l’altro, l’umiltà di saper fermarsi e chinarsi verso l’altro, e soprattutto di essere visti e compatiti da lui, che regna col Padre e lo Spirito Santo, nei secoli. Amin.

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